Le stagioni delle piccole città

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Sono tornata a Bobbio qualche giorno fa, ma la “città dell’arte”, nella sonnacchiosa veste invernale mi ha un po’ delusa.

Poca gente dal passo frettoloso andava verso la propria meta senza neppure dare un’occhiata alle vetrine (poche) col loro contenuto quasi dimesso.

Io ricordo la calca, il chiacchiericcio, i visi sorridenti di coloro che incontravo solo qualche mese fa, quando il caldo riempiva le gelaterie di gente allegra, che ne usciva con coni e coppette ricolme di variopinti ammassi di gelato, o i tavolini dei vari bar che invadevano i marciapiedi o consentivano un attimo di sosta nel fresco di un portico.

Tutto questo è temporaneamente sparito, come le foglie sugli alberi dei viali.

Persino i parcheggi sono semideserti, creando una sensazione deprimente di abbandono.

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Sono andata a cercare il vecchio ponte gobbo o “del diavolo”, se preferite, ma quello almeno non mi ha deluso: pur vetusto com’è, si erge insolente sopra le acque turbinose del Trebbia, resistendo alle sue piene con l’orgoglio di quelle stranissime arcate irregolari, il fascino immutevole della struttura apparentemente fragile, vista dall’alto, ma tenacemente fissata al suolo del greto, punteggiato di pietre nere, forgiato dal moto continuo dell’acqua da secoli e secoli.

Lì ho ritrovato la magia di Bobbio, così come la conobbi al primo approccio, facendo rinascere in me il desiderio di tornarci fra qualche altro mese, in un’altra stagione, a ricercare l’antica fonte termale di acqua salso-iodica, creata dai romani all’aperto, proprio accanto al Trebbia, tuffarmi nella calca di folla eterogenea dei suoi affascinanti vicoli, gustare l’aria frizzantina che scende dal vicino passo del Penice, ritrovare la serenità di spirito generata dai suoi molti angoli pittoreschi, che riportano col pensiero a tempi remoti.